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dai GIORNALI di OGGIPassera: aiutare la crescita fa bene anche ai conti pubblici "Sì ai Tremonti bond". "Riforme, ha ragione Ichino sul contratto unico" 2009-02-04 |
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per l'articolo completo vai al sito http://www.corriere.it2009-02-04 L'INTERVISTA Passera: aiutare la crescita fa bene anche ai conti pubblici "Sì ai Tremonti bond". "Riforme, ha ragione Ichino sul contratto unico" MILANO - Un lettore canadese ha raccontato al Financial Times di aver suggerito a sua nipote di 8 anni di portare in banca i 250 dollari messi assieme tra regali e mance. Ma la bambina lo ha freddato con una risposta secca: "No, nonno. Non ho fiducia nelle banche". Racconto la storiella a Corrado Passera di ritorno da Davos e gli chiedo da dove debbano ripartire banche e capitalismo. "Dalla responsabilità di cooperare per il bene comune" è la risposta. "Democrazia e capitalismo sono una conquista della nostra civiltà occidentale. Il nostro modello economico, che ha permesso l'uscita dalla miseria di miliardi di uomini e donne, perché ha saputo evolversi di continuo. Ora deve imparare dai suoi più recenti errori, evitare gli eccessi e diminuire le ingiustizie ". Vista così, la crisi è persino una grande occasione per toglierci di dosso quella che Passera chiama "l'ultima ideologia". Il mercato è un formidabile strumento ma parecchi dogmi sono caduti: la somma degli interessi individuali non porta sempre al bene comune, il gioco di domanda e offerta non sempre porta a prezzi significativi, la concorrenza non sempre porta all'equilibrio ma, anzi, - se non regolata - porta a bolle dove pochi guadagnano tanto e tanti perdono tutto. "Detto questo dobbiamo lavorare a un capitalismo più giusto e responsabile. La Storia non è finita nemmeno questa volta". Si riparte da un mondo che a Davos si è mostrato multipolare come non mai. Benvenuto, dunque, Mr. Obama, gli Usa continueranno ad avere un ruolo prioritario con il loro 19% del Pil del globo, "ma senza coinvolgere Cina, India e Russia non lo si governa ". Il G8 andrà in pensione e verrà sostituito probabilmente dal G20. "Il rammarico è che anche al Forum l'Europa è parsa disunita, debole, non all'altezza del ruolo che potrebbe avere. Gli orizzonti strategici si ampliano e la Ue purtroppo gioca solo di rimessa, nonostante tutti riconoscano che il modello europeo, mercato più tutela sociale, sia la via da seguire". Capitalismo responsabile non è per Passera "una contraddizione in termini". Anzi, "è una proposta per governare modernità e globalizzazione. Chi pensa che la globalizzazione vada fermata per superare la crisi, sbaglia di grosso. Anzi, se vogliamo ricostruire la fiducia a livello planetario, dobbiamo chiudere in tempi brevissimi il Doha Round". La peggiore delle cure sarebbe il protezionismo: già una volta ha gettato il mondo nella Depressione. Chi ne parla sembra dimenticare che le nostre migliori aziende dipendono per oltre il 50% dalle esportazioni. L'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo pensa che avere un manifatturiero ampio e diffuso "sia una benedizione" e chi voleva superarlo per crescere solo nei servizi "aveva evidentemente torto". Lo dimostra la storia della Total di Grimsby. Gli inglesi hanno rinunciato alla loro industria e sono costretti a dar lavoro alle aziende straniere specializzate. "Noi dovremmo valorizzare il manifatturiero competitivo: dare risorse e agevolazioni a chi investe nella propria azienda, la internazionalizza e magari la fonde con un'altra". Ma, obietto, un capitalismo responsabile che si ricandida a guidare il mondo ha bisogno di una classe dirigente capace di visione e in possesso di un'etica personale e pubblica. Invece le cronache sono piene di fatcats, di manager ingrassati a colpi di bonus miliardari e insensibili al bene comune. "Soprattutto nei paesi anglosassoni - risponde Passera - i sistemi di governance, tanto adulati dagli aedi di casa nostra, hanno creato sistemi di retribuzione abnormi che hanno esasperato l'orientamento al brevissimo termine ed esclusivamente al cosiddetto shareholders value. E' una stagione finita, certi comportamenti sono stati giustamente cancellati". Ma le stock option le avete copiate anche in Italia e anche lei ne ha usufruito. "Le stock option sono uno strumento utile se bene utilizzate mentre portano a risultati molto negativi se usate male. Mettere in condizione i manager di comprare nel tempo azioni della società che gestiscono non è sbagliato. L'importante è che le quantità siano ragionevoli, i meccanismi di assegnazione siano legati ai risultati di medio periodo e le tempistiche di vendita successiva premino la fedeltà all'azienda. Io sono addirittura di quelli che credono che un capo azienda debba tenere tutte le azioni che ha potuto comprare fino a quando mantiene la sua posizione". Il banchiere racconta che a Davos si è parlato del miliardo di giovani che in tutto il mondo cerca di entrare nel mercato del lavoro e dispera di riuscirci. "Il rischio è che la crisi tuteli chi è già tutelato e crei un'economia senza giovani. E faccia dell'Italia un Paese di giovani, di donne e di non-ancora-vecchi inattivi. Oggi chi è fuori dal mercato del lavoro e i precari pagano i privilegi e le rigidità di una parte di coloro che il lavoro ce l'hanno: ben vengano il contratto unico e le proposte del professor Ichino! Più in generale, se vogliamo costruire l'Italia di domani dobbiamo però affrontare finalmente i nodi strutturali della nostra società: l'eguaglianza dei punti di partenza, la scuola, la ricerca, la meritocrazia, la mobilità sociale". Volete una società più aperta ma poi le banche sono accusate di dare i soldi sempre e solo ai soliti noti. Un nome per tutti: la Fiat. "Pensa davvero che finanziamo Torino per scelta ideologica? Non è così. La Fiat ha fatto un grande lavoro di ristrutturazione e rilancio e a fronte di progetti industriali seri noi ci siamo stati. Ricordo la primavera del 2003: ero da poco entrato in banca e scoppiò il caso Fiat. Facemmo bene ad insistere per trovare una soluzione finanziaria che desse al gruppo un futuro. Non stiamo parlando di una sola azienda ma di un settore fatto di migliaia di aziende e di centinaia di migliaia di occupati". Ma non un soldo che andrà a Torino verrà tolto alle piccole imprese, assicura Passera. Cita i dati di Intesa Sanpaolo: 200 miliardi di affidamento alle piccole e piccolissime, 120 alle medie e grandi aziende. "In Italia non siamo al credit crunch, anche a gennaio - così come nel 2008 - come banca abbiamo aumentato l'ammontare di credito erogato malgrado il forte calo della domanda di finanziamenti e la forte crescita della rischiosità. Dai prossimi giorni farò un giro dell'Italia per spiegare ai nostri 8000 responsabili sul territorio che malgrado la crisi non ci tiriamo indietro". Ma i Tremonti bond poi alla fine li prenderete o no? Costano troppo? "Apprezziamo il lavoro del Tesoro e stiamo dando il nostro contributo per una soluzione equilibrata. Altri Paesi hanno dovuto fare operazioni di salvataggio, in Italia invece si sta solo valutando l'ipotesi di rafforzare il patrimonio delle banche perché possano crescere di più e sostenere ancora meglio l'economia reale". Passera pensa a un'operazione temporanea e che i soldi possano essere restituiti in capo a 2-3 anni "ma se il meccanismo fosse troppo costoso non ce lo potremmo permettere: le autorità europee, che hanno l'ultima parola, dovrebbero, a mio parere, favorire di più questo tipo di operazioni". E se alla fine questi bond restassero nel cassetto del Tesoro? "Si sarà persa un'occasione, perché se avremo meno patrimonio potremo erogare meno credito e potremo dare un contributo inferiore al superamento della crisi". Guai però a ripetergli la litania corrente secondo la quale le banche italiane si sono salvate perché antiquate. "Arretrati perché non abbiamo fatto finanza creativa? Perché abbiamo cercato di coniugare credito e responsabilità, perché abbiamo diffidato dell'eccessiva crescita a debito? Che avrei dovuto fare quando mi portavano ad esempio la Northern Rock che dava i prestiti a 30 anni e raccoglieva risorse sull'interbancario a tre mesi? O quando le banche di investimento facevano operazioni con un effetto leva pari a 60?". Tempo fa Passera propose un piano di 250 miliardi da spendere in 5 anni per finanziare opere infrastrutturali, incentivare investimenti privati e assicurare ammortizzatori sociali alle fasce non coperte. Il ministro Tremonti e il governo hanno scelto un'altra strada per non compromettere l'immagine rigorista di un Paese che dovrà tra breve chiedere ai risparmiatori di sottoscrivere i suoi titoli di Stato. Lei è rimasto della stessa opinione? "Sono preoccupato anch'io dello spread tra i nostri Btp e i bund, così come trovo sensatissima l'idea di dar vita a una sorta di eurobond per finanziare i grandi progetti" risponde. Ma, aggiunge, "siamo sicuri di non poter fare di più per recuperare l'enorme ritardo infrastrutturale che abbiamo accumulato e che necessiterebbe di quell'ammontare di impegni? 50 miliardi di euro all'anno sono tanti, ma non poi così tanti se mettiamo insieme ciò che il Cipe ha già avviato, gli stanziamenti già programmati per Fs e Anas, i fondi Bei. Forse si potrebbe razionalizzare il 10% dell'attuale spesa sul territorio per opere pubbliche, dismettere l'1% del patrimonio pubblico, recuperare il 2-3% di sprechi nella spesa pubblica. E attirare fondi privati: noi abbiamo creato una banca specializzata proprio nelle infrastrutture e nelle partnership tra pubblico e privato. Mi rendo conto delle difficoltà, ma se non riattiveremo una fase di crescita sostenibile i conti pubblici andranno comunque a gambe all'aria". Ma il sindaco di Torino Chiamparino accusa che sono stati buttati per l'Alitalia 3 miliardi di soldi pubblici. "Se fosse fallita, lo Stato se ne sarebbe probabilmente dovuti sobbarcare il doppio e avrebbe avuto alcune decine di migliaia di disoccupati in più. Lo dico senza polemica". Dario Di Vico 04 febbraio 2009
Lo scambio difficile di Michele Salvati Da più parti — anche su questo giornale, si veda Francesco Giavazzi l'8 gennaio scorso — si propone uno scambio tra misure di sostegno dei redditi e dell' occupazione nell'immediato con riforme strutturali che consentano risparmi di spesa e maggiore crescita in un prossimo futuro. La necessità di uno scambio ha due motivazioni principali. La prima è che, nelle nostre condizioni di finanza pubblica, con un rapporto debito/Pil che è il più alto tra i Paesi europei ed è comunque destinato a crescere, se i mercati non fossero convinti che l'aumento del disavanzo dovuto a misure anticicliche non sarà invertito in tempi brevi da efficaci riforme strutturali, la nostra situazione diverrebbe finanziariamente insostenibile: già ora, e nonostante la relativa modestia delle misure di sostegno varate o annunciate dal governo, la valutazione del nostro debito è notevolmente peggiorata rispetto a quella di Paesi considerati più affidabili e ci costringe a pagare interessi più elevati sulle nuove emissioni. La seconda motivazione è che le riforme strutturali cui siamo chiamati, o almeno alcune di esse, sono dei beni in sé, misure richieste da ragioni di efficienza o di equità che avremmo dovuto attuare in passato e che aumenteranno la nostra capacità di crescita in futuro. A queste due motivazioni principali talora se ne aggiunge una terza: le riforme che non si riescono a fare in condizioni normali a volte è possibile farle in condizioni di emergenza. Brevemente, una per una. La prima è ineccepibile: tanto maggiore è l'ammontare delle misure di sostegno dei redditi e dell'occupazione, e dunque del disavanzo aggiuntivo che ad esse conseguirebbe, tanto più rigorose e credibili devono essere le riforme strutturali da cui ci si attende un ritorno all'equilibrio. Tremonti ha ragione quando sottolinea l'importanza del problema e la nostra natura di sorvegliati speciali, con il debito pubblico che ci ritroviamo: il rischio di un declassamento è sempre incombente. Ma anche in queste condizioni qualcosa di più e di meglio di quanto sta facendo il governo si può fare: forse si potrebbe arrivare a un punto di Pil in misure di sostegno, se solo si convincono i mercati che quel punto sarà recuperato e più che recuperato da minori spese o maggiori entrate in un futuro prossimo, o da una maggior crescita del reddito quando la recessione allenterà la sua morsa. E la convinzione dei mercati discende sia dal disegno delle riforme, sia dalla fiducia che saranno effettivamente attuate, dunque dalla forza politica di chi le propone e le sostiene. Veniamo allora alla seconda motivazione, il disegno delle riforme strutturali. Se il nostro Paese si impegna in un programma di sostegno dei redditi — ad esempio un sistema di ammortizzatori sociali esteso a tutti i lavoratori e misure di sostegno dei redditi minimi un po' più robuste della social card e del bonus— lo scambio più evidente per garantirne la sostenibilità è quello di prelevare le risorse laddove ci sono ed è possibile farlo in tempi brevi: mediante una riforma del sistema pensionistico. Questo scambio sarebbe apprezzato dai mercati finanziari, perché i calcoli sono relativamente semplici e perché si tratterebbe di un buon indicatore della forza politica del governo, della sua capacità di attuare misure impopolari. E lo scambio non contrasterebbe con l'equità, perché un allungamento della vita lavorativa è necessario a seguito dell'aumento della speranza di vita. Un altro scambio che solitamente è apprezzato dai mercati finanziari, anche se meno diretto di una riforma pensionistica e non facilmente calcolabile nei suoi effetti sulla crescita, riguarda la legislazione del lavoro e le relazioni industriali: queste ultime sono l'oggetto del contendere nell'accordo firmato il 22 gennaio sulla riforma della contrattazione; e sulla legislazione del lavoro è tornata recentemente alla carica Confindustria, coll'idea da tempo discussa di un contratto unico a tutele crescenti nel tempo. Ho menzionato apposta queste vicende, al confine tra economia e politica, per introdurre la terza motivazione addotta al fine di giustificare il nostro scambio: riforme efficienti ed eque, che non si riescono a fare in momenti ordinari, si possono imporre in momenti di emergenza. Vorrei poterlo credere. Né Tremonti, né Sacconi sembrano intenzionati a toccare la previdenza, forse perché chi tocca le pensioni, come chi tocca i fili, muore. L'opposizione, dopo aver sostenuto che le misure del governo sono insufficienti e occorre una riforma universalistica degli ammortizzatori sociali, si avvale poi del suo diritto al silenzio su come finanziarla. Sulla riforma della contrattazione e della legislazione del lavoro sono poi ben pochi, Pietro Ichino è il più noto, coloro i quali cercano di stabilire ponti all'interno dell'opposizione, del sindacato e di Confindustria, e tra questi e il governo. La realtà è che anche in condizioni di emergenza— a meno che essa raggiunga proporzioni che nessuno si augura — il nostro sistema politico blocca riforme giuste e utili, ma impopolari: ci sono sempre elezioni in un prossimo futuro e nessuno vuole perdere voti. 04 febbraio 2009 |
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